1. L’impatto dell’emergenza COVID-19

Il settore delle costruzioni ha risentito fortemente del blocco dell’attività nella prima fase della pandemia, nella primavera del 2020. I provvedimenti successivi hanno consentito la ripresa progressiva dei cantieri, sia pure con cautele e costi maggiori per la sicurezza e una diversa organizzazione del lavoro che si traduce, inevitabilmente, in una minore produttività.

I ritardi nei tempi dei lavori sono stati però superiori a quelli dell’interruzione in senso stretto. Vi hanno contribuito, in modo consistente, anche il congelamento delle procedure degli appalti, in corso o da bandire, determinato dalla legge 18/2020, e il dilatarsi dei tempi per l’approvazione dei progetti da parte dei diversi uffici pubblici.

Ma tutto questo può, auspicabilmente, considerarsi un effetto negativo transitorio.

L’impatto più profondo dell’emergenza sanitaria si è

La definizione dell’evoluzione in corso che ha avuto più fortuna è basata sull’osservazione che, come effetto dell’emergenza, le case tendono ad assomigliare di più ad uffici, dovendo ospitare postazioni di lavoro, e la conformazione degli uffici tende ad ispirarsi ai confort delle abitazioni.

E, allargando lo sguardo alla dimensione complessiva dei fenomeni, come fatto stilizzato può dirsi anche che assistiamo ad una rivincita delle campagne sulle città, delle periferie sui grandi centri direzionali.

Rivincita piccola, ma pur sempre da sottolineare, visto che si pone in discontinuità con la tendenza millenaria all’urbanizzazione, all’esodo verso i centri maggiori e all’esaltazione moderna delle downtown.

Nel periodo del primo lockdown, tra aprile e marzo del 2020, le grandi città europee si sono infatti svuotate e vi è stata una fuga verso le seconde case e verso le residenze delle famiglie di origine. Questa tendenza sta lasciando un’impronta rilevante sulla domanda residenziale, sia per la struttura delle abitazioni sia per la loro collocazione nel tessuto urbano.

A fronte delle limitazioni dei movimenti che hanno colpito duramente l’attività scolastica e il tempo libero, la soluzione per le famiglie è ora quella di ricercare spazi domestici più vivibili; cresce, quindi, la domanda di case con giardini e terrazzi, tipologia che, poi, è più agevole e meno costoso trovare, magari nella stessa regione, ma in centri minori o in zone di campagna. Del resto, limitando in misura consistente i giorni in cui occorre recarsi di persona alla sede della propria azienda, si riduce anche l’onere di tragitti di maggiore durata nel percorso casa-lavoro.

In sintesi, il modello tradizionale dei grandi condomini, senza aree comuni e dislocati sulle grandi arterie verso il centro delle città, sembra proprio in crisi a fronte di soluzioni abitative più aperte negli spazi, e più friendly nelle formule di vita.

2. Smart working e smart office

Il principale motore della trasformazione in atto è lo smart working, nel duplice significato di home working e di smart office.

Il fenomeno dello smart working va configurato come evoluzione rapida, imposta dall’emergenza, del modello del lavoro, sia pubblico, sia privato. Va da sé che l’affermarsi del modello dipende dalla ripartizione di base tra attività “telelavorabili” e attività che vanno svolte necessariamente in presenza, come quelle, in primo luogo, del settore manifatturiero, di quello sanitario, di quello della sicurezza. L’altro snodo risiede nella disponibilità di adeguate connessioni e dotazioni informatiche: il digital divide può ostacolare l’home working.

Sullo svolgimento di tutte le attività non vincolate dalla fisicità e, quindi, trasferite dalla pandemia nelle abitazioni, il dibattito è stato molto vivace e contrastato, anche se focalizzato soprattutto sulla pubblica amministrazione.

Così lo smart working è stato esaltato, attribuendogli un alto valore sociale e un forte aumento della produttività, ovvero è stato “criminalizzato” come occasione di lunga vacanza per i dipendenti pubblici; in modo più equilibrato, ne sono stati posti in luce i vantaggi e i rischi, considerandolo, ragionevolmente, come una modalità di lavoro integrativa e non sostitutiva di quella in presenza.

Sono poi venute in evidenza le occasioni di risparmio e di attenuazione del traffico e dell’inquinamento ambientale per le città; mentre per le aziende private è emersa un’opportunità di contenimento dei costi, sul piano della logistica e dei servizi, maggiore per i settori più innovativi, basati su forme consolidate di comunicazione e socializzazione a distanza.

Per la pubblica amministrazione, la questione dell’home working è ancora più complessa, perché va ad innestarsi in un ambiente organizzativo caratterizzato da indubbie carenze strutturali.

Ma anche nella PA l’evoluzione delle modalità di lavoro, in quanto imposta dalla realtà esterna, è comunque partita. Non potrà che svilupparsi a macchia di leopardo, in funzione, in particolare, della crescita non omogenea dei livelli di digitalizzazione, della semplificazione dei processi che verrà realizzata, delle capacità gestionali dei dirigenti. Va comunque segnalato che si tratta di una trasformazione che non discende da una riforma normativa (che può sempre restare sulla carta, come avvenuto di frequente) ma, piuttosto, da un’ampia spinta esogena, il cui impatto non è evitabile.

Va da sé che l’evoluzione, operando su più piani, è accentuata da una serie di fattori concomitanti che si condizionano a vicenda. Ad esempio, maggiori sono le difficoltà ad usufruire in sicurezza dei trasporti pubblici, maggiore sarà la spinta verso l’home working; più alta permane la componente di didattica a distanza per le scuole e meno si agevola un ritorno al lavoro in presenza; tanto più gli uffici saranno accoglienti e sicuri, tanto più saranno competitivi rispetto al lavorare da casa; per converso, adeguando le abitazioni alla nuova esigenza di un utilizzo promiscuo, come luogo di vita e di lavoro, verrà eliminato il gap di funzionalità operativa rispetto alle strutture degli uffici, riscontrato nella prima fase del lockdown.

Ma, comunque sia, la strada dello smart working è tracciata e anche una volta superata l’emergenza sanitaria non è ipotizzabile un ritorno al passato.

3. La domanda di immobili destinati a uffici

La sperimentazione in larga misura positiva dell’home working e i possibili risparmi che comunque ne conseguono a livello generale stanno richiedendo una rivisitazione, caso per caso, dell’attuale configurazione degli uffici.

Non è tuttavia verosimile un rapido, diffuso abbandono degli spazi ora utilizzati. Sarebbero troppe le difficoltà e i costi per il riutilizzo degli edifici di proprietà, ovvero per la chiusura dei contratti di locazione in essere; ma,  inoltre, sono molti i timori che inducono alla prudenza rispetto ad un ricorso massivo al lavoro a distanza. Con l’home working si perde infatti molto delle sinergie e degli scambi di esperienza che solo il contatto diretto può dare, specie nella formazione delle nuove leve; ed è difficile mantenere ferma da casa la piena condivisione delle strategie e degli obiettivi aziendali.

Emerge una nuova filosofia e una nuova configurazione degli spazi per uffici, con le quali il settore immobiliare sta già facendo i conti. I servizi agli ambienti e alle persone non rivestono più il ruolo minore, un po' da cenerentola, del passato, ma hanno assunto un peso strategico. La gran parte dei servizi ha, infatti, assunto una dimensione ed una funzione ben diverse: il buon funzionamento e il rispetto dei nuovi standard nel controllo degli accessi, nelle pulizie, nei servizi di bar e di mensa, nella mobilità aziendale e in tutte le forme di supporto sanitario ai dipendenti costituiscono ora un presupposto di base per la stessa ordinata attività aziendale. Ne derivano nuove prospettive di sviluppo dell’industria di facility management, anche sotto il profilo dei livelli occupazionali.
Inoltre il mix tra telelavoro e attività in presenza comporta la necessità di garantire in modo più robusto del passato la riservatezza e la continuità operativa dei servizi e delle connessioni informatiche, elevando conseguentemente il ruolo delle difese rispetto al cyber-crime.

Ma veniamo alla struttura degli ambienti di lavoro. Tradizionalmente, specie nelle amministrazioni pubbliche, i parametri di base sono quelli di una postazione fissa, in ambienti condivisi da molti dipendenti ovvero in una stanza singola per il personale di grado più elevato, con pochi ambienti e servizi di supporto (con l’eccezione delle sale riunioni), con arredi minimali, se non vintage.

Insomma il contrario del modello che tende ora ad affermarsi e che esclude, in primo luogo, open space affollati, ove non possa essere garantito adeguatamente il distanziamento sociale. Ma, per converso, se le presenze in ufficio si verificano a rotazione, con una incidenza degli addetti in telelavoro che si ipotizza nel new normal non numericamente dissimile da quella dei colleghi in presenza, che senso avranno uffici in larga misura vuoti, a fronte di una spesa ormai comunque sovradimensionata? Del resto l’attaccamento alla scrivania personale cade di fronte alla prospettiva di una maggiore elasticità della prestazione lavorativa e di giornate di lavoro più “agili” da casa.

In più con la digitalizzazione dei processi e con la progressiva scomparsa dei documenti cartacei vengono meno tutte le connesse esigenze di materialità efisicità di un ambiente di lavoro tradizionale, a partire dagli armadi e dagli archivi per riporre le pratiche.

Ne deriva la spinta a un diffuso utilizzo di postazioni condivise, con strutture leggere, ma tecnologicamente evolute.

La trasformazione, dettata dall’esperienza della fase di emergenza, non è però solo quantitativa. In primo luogo, se il tempo condiviso negli ambienti di lavoro è minore e i rapporti diretti tendono a rarefarsi, occorre sfruttare al massimo i momenti e le occasioni di contatto, anche informali, di lavoro in comune (specie per gli aspetti dello scambio di esperienze e della condivisione dei progetti). Sotto altro profilo, dopo la sperimentazione del lavoro in casa è duro rientrare in ambienti freddi e standardizzati. Per converso il bisogno di socialità e di confronto diretto può trovare pieno appagamento con una presenza, anche ridotta, se effettuata in ambienti che stimolano i contatti, specie se informali.

Ecco affermarsi, quindi, il paradigma dello smart office nelle sue diverse componenti, da quella strutturale e degli arredi a quella della digitalizzazione dei processi di lavoro e dei servizi, dalla mobilità aziendale al coordinamento delle presenze e degli incontri.

L’evoluzione descritta determina per il settore immobiliare due conseguenze: la prima è che la riduzione tendenziale degli spazi per uffici sarà moderata dall’esigenza di una loro più moderna e funzionale configurazione, attenta ai servizi alle persone e agli ambienti condivisi; la seconda è che per la riorganizzazione degli spazi e degli arredi si presenta una preziosa occasione di sviluppo da cogliere puntando sull’innovazione e, ovviamente, sulla tecnologia.

Si apre, dunque, la prospettiva degli smart building, caratterizzati da un uso diffuso della tecnologia per la gestione degli edifici, che si accompagnerà opportunamente alla completa digitalizzazione del lavoro; la scelta delle aziende e delle persone tra il telelavoro e il lavoro in presenza non dipenderà, quindi, da vincoli tecnici e organizzativi ma dal bilanciamento delle diverse esigenze sociali e individuali e dall’obiettivo del buon funzionamento della macchina organizzativa.

E se guardiamo alla situazione degli uffici della pubblica amministrazione non è difficile rilevare che anche in questo comparto sono molto ampi gli spazi di manovra per l’affermazione dello smart office, anche per la conseguente opportunità di rivedere la dislocazione di tanti uffici pubblici, spesso ubicati in modo poco funzionale in edifici in locazione da privati.

continua nel pdf allegato...

Fonte: Capo del Dipartimento Immobili e appalti della Banca d’Italia

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